GUIDO GOZZANO

GUIDO GOZZANO
Alfonso Prota, giovedì 12 aprile 2018
TRA LA PIUMA E IL PIOMBO
L’amica di nonna Speranza
«…alla sua Speranza la sua Carlotta…»
28 giugno 1850
(all’album: dedica d’una fotografia)
I.
Loreto impagliato e il busto di Alfieri, di Napoleone,
e i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
II.
I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere
che cauti (hanno tolte le federe ai mobili. È giorno di gala).
Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta!
Ha diciassette anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:
da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna,
il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.
Più snella de la crinoline emerge la vita di vespa.
Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande;
divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie.
Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno
passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.
Silenzio, bambini! Le amiche – bambini, fate pian piano!
le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.
Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leùto e d’Alessandro Scarlatti.
innamorati dispersi, gementi il core e l’augello,
languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:
……………………
…caro mio ben
credimi almen!
senza di te
languisce il cor!
Il tuo fedel
sospira ognor,
cessa crudel
tanto rigor!
……………………
Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita
si schiude alla breve romanza di mille promesse di vita.
O musica! Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso
d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati… O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!
III.
Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,
ligio al passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore;
giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene
ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna…
«Baciate la mano alli Zii!» dicevano il Babbo e la Mamma,
e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.
«E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta
Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza.»
«Ma bene… ma bene… ma bene…» diceva gesuitico e tardo
la Zio di molto riguardo «…ma bene… ma bene… ma bene…
Capenna? Conobbi un Arturo Capenna… Capenna… Capenna…
Sicuro! alla corte di Vienna! Sicuro… sicuro… sicuro…»
«Gradiscono un po’ di moscato?» – «Signora sorella magari…»
E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.
«…ma la Brambilla non seppe…» – «E pingue già per l’Ernani…»
«La Scala non ha più soprani…» – «Che vena quel Verdi… Giuseppe…»
«…nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice, m’han detto,
nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d’un capolavoro.»
«…azzurri si portano o grigi?» – «E questi orecchini? Che bei
rubini! E questi cammei…» – «La gran novità di Parigi…»
«…Radetzky? Ma che? L’armistizio… la pace, la pace che regna…»
«…quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!»
È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro…»
«È bello?» – «Non bello: tutt’altro.» – «Gli piacciono molto le donne…»
«Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino)
«Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano.»
Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto
inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.
IV.
Ohimè! che giocando un volano, troppo respinto all’assalto,
non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano!
S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il lago,
sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.
«Ah! se tu vedessi che bei denti!» – «Quant’anni?…» «Ventotto.»
«Poeta?» – «Frequenta il salotto della contessa Maffei!»
Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende più ancora
di porpora: come un’aurora stigmatizzata di sangue;
si spenge infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro:
il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento.
Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome
dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo,
il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa:
non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?
Vedesti le case deserte di Parisina la bella?
Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?
«…mah! Sogni di là da venire!» – «Il Lago s’è fatto più denso
di stelle.» – «…che pensi?» – «…Non penso.» – «…Ti piacerebbe morire?»
«Sì!» – «Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri.
Inchìnati sui balaustri: sognarne così, tra due cieli…»
«Son come sospesa! Mi libro nell’alto…» – «Conosce Mazzini…»
«E l’ami?…» – «Che versi divini!» – «Fu lui a donarmi quel libro,
ricordi? che narra siccome, amando senza fortuna,
un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome.»
V.
Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze
resusciti le diligenze, lo scialle, la crinoline…
Amica di Nonna, conosco le aiole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.
Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno
la data: ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta.
Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo
e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.
Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa,
per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…
Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei
o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?
(1906 – I Colloqui - Alle soglie, 1911)
Alle soglie
I.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,
pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia… sono i dottori.
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.
E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…
«Appena un lieve sussurro all’apice… qui… la clavicola…»
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
«Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…
non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:
Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…»
II.
O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?
Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace
e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo di un bosco, coi minimi intrichi dei rami.
E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.
III.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,
mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora –
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.
(Dall’uomo: chè l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra)
È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.
Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
nè più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.
Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.
(I Colloqui - Alle soglie, 1911)
La signorina Felicita
I.
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…
Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa he veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!
Ercole furibondo ed il Centauro,
la gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore…
Penso l’arredo – che malinconia! –
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere… Che malinconia!
Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente… Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!
II.
Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquitarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.
«Senta avvocato…» E mi traeva inquieto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,
da quel salone buio e troppo vasto…
«…la Marchesa fuggì… Le spese cieche…»
da quel parato a ghirlandette, a greche…
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto…»
da quel tic-tac dell’orologio guasto…
«…l’ipotecario è morto, e l’ipoteche…»
Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morta, allora…» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»
III.
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.
Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…
Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poiché trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio…
M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…
Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.
Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino…
Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu i sorridevi,
ed ecco ritrovata la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.
IV.
Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le varie forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:
«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno… e noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena… L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi…»
Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.
Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato dalle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»
Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!
Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dell’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.
Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.
Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena…
L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere…
Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovar loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro…
L’alloro… Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiare altrui…
«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città…
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»
Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.
«Che ronzo triste!» «È la Marchesa in pianto…
La Dannata sarà, che porta pena…»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena…
Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:
«È Maddalena in quieta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là… Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»
Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana…
«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!…» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle…»
V.
Ozi beati a mezzo la giornata
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.
L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi…
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.
«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!
Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore…»
Tu mi fissavi… Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»
«Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.
Ma nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten…ga mai più… tali dis…corsi!»
«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello…
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.
Donna: mistero senza fine bello!
VI.
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte…
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…
Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…
Ed io non voglio più essere io!
VII.
Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.
«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca…
E la dote… la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno…»
«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a lei; non mi saluta, non mi parla…»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla…»
«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano… Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo…»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana…»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.
Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra un I gigante».
In molti mesi e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.
Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?
A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno…
La Luna, prigioniera fra la sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.
Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà…
VIII.
Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.
Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.
«Viaggio con le rondini stamane…»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio…
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…
Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostra salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette…
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.
Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…
«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite…» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò…»
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…
M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…
Quello che fingo d’essere e non sono.
(1909 – I Colloqui - Alle soglie, 1911)
Il responso
«Or vado, Marta, suona la mezzanotte…» O casa
di pace, o dolce casa di quell’amica buona…
L’alta lucerna ingombra segnava in luce i rari
pizzi dei suoi velari, ergendosi nell’ombra
come un piccolo sole… Durava nella stanza
l’eco d’una speranza data senza parole.
Nella zona di luce v’erano fiori, carte,
volumi, sogni d’arte… Contro una stampa truce
del Durero, una grigia volpe danese il terso
muso tendeva verso l’alto, con cupidigia.
C’era un profumo mite che mi tornava bimbo:
…un gracile corimbo di primule fiorite.
E c’era una blandizie mondana acuta fine:
…di essenze parigine, di sigarette egizie…
C’era un profumo forte che inebbriava i sensi:
…i bei capelli densi come matasse attorte…
Sotto il prodigio nero di quella chioma unica,
vestita di una tunica molle, di foggia «impero»,
Marta teneva gli occhi assorti ed un pugnale
fra mano, e non so quale volume sui ginocchi.
Tagliava, china in non so che taciturna indagine,
lentamente le pagine del gran volume intonso.
«La mezzanotte, Marta…» Non mi rispose, udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.
La taciturna amica con quel volume austero
m’apparve nel mistero d’una sibilla antica.
«Se le dicessi? Sa ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità!»
E a quella donna, avvezza a me come a un fratello
buono, mi parve bello dire la mia tristezza.
Ah! Se potessi amare! Vi giuro, non ho amato
ancora: il mio passato è di menzogne amare.
– Mi piacquero leggiadre bocche, ma non ho pianto
mai, mai per altro pianto che il pianto di mia Madre.
Come una sorte trista è sul mio cuore, immagine
(se vi piace l’immagine un poco secentista)
d’un misterioso scrigno d’ogni tesoro grave,
ma ne gittò la chiave l’artefice maligno,
l’artefice maligno, in chi sa quali abissi…
Marta, se rinvenissi la chiave dello scrigno!
Se al cuore che ricusa d’aprirsi, una divota
rechi la chiave ignota dentro la palma chiusa,
per lei che nel deserto farà sbocciare i fiori,
saran tutti i tesori d’un cuore appena aperto.
Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?
Molte mani soavi apersi a poco a poco
come si fa nel gioco, ma non trovai le chiavi.
O dita appena tocche, forse amerò domani!
e abbandonai le mani e ribaciai le bocche…
Mi pesa la menzogna terribilmente! O maschera
fittizia che mi esaspera nell’anima che sogna!
Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?
Tutte, persin le brutte, mi danno un senso lento
di tenerezza… «Sento» – risi – «di amarle tutte!
Non sorridete, Marta?» Non sorrideva. Udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.
E ripensavo: – Sa ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità. –
«Nel cuore senza fuoco già l’anima è più stanca,
più d’un capello imbianca, qui, sulla tempia, un poco.
Ogni sera più lunge qualche bel sogno è fatto:
aspetta il cuore intatto l’amore che non giunge.
O beva chi non beve, doni che si rifiuta
prima che sia compiuta la mia favola breve!
Fanciullo, e verrai tu, compagno alato della
seconda cosa bella – il non essere più –
verrai con bende e dardi, anche, Fanciullo, a me?
O amare prima che si faccia troppo tardi!
L’amore giungerà, Marta?» (Nel libro intonso,
pensavo, ecco il responso lesse di Verità)
«L’Amore come un sole» (durava nella stanza
l’eco d’una speranza data senza parole)
«irraggerà l’assedio dell’anima autunnale,
se pure questo male non è senza rimedio…»
Ella dal Libro, in quiete, tolse l’arme, mi porse
l’arme. Rispose: «Forse! – Perché non v’uccidete?»
(La via del rifugio, 1907)
I colloqui
…reduce dall’Amore e dalla Morte
gli hanno mentito le due cose belle…
I.
Venticinqu’anni!… Sono vecchio, sono
vecchio! Passò la giovinezza prima,
il dono mi lasciò dell’abbandono!
Un libro di passato, ov’io reprima
il mio singhiozzo e il pallido vestigio
riconosca di lei, tra rima e rima.
Venticinqu’anni! Medito il prodigio
biblico… guardo il sole che declina
già lentamente sul mio cielo grigio.
Venticinqu’anni!… Ed ecco la trentina
inquietante, torbida d’istinti
moribondi… ecco poi la quarantina
spaventosa, l’età cupa dei vinti,
poi la vecchiezza, l’orrida vecchiezza
dai denti finti e dai capelli tinti.
O non assai goduta giovinezza,
oggi ti vedo quale fosti, vedo
il tuo sorriso, amante che s’apprezza
solo nell’ora triste del congedo!
Venticinqu’anni!… Come più m’avanzo
all’altra meta, gioventù, m’avvedo
che fosti bella come un bel romanzo!
II.
Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.
Io piansi e risi per quel mio fratello
che pianse e rise, e fu come lo spetro
ideale di me, giovine e bello.
A ciascun passo mi rivolsi indietro,
curioso di lui, con occhi fissi
spiando il suo pensiero, or gaio or tetro.
Egli pensò le cose ch’io ridissi,
confortò la mia pena in sé romita,
e visse quella vita che non vissi.
Egli ama e vive la sua dolce vita;
non io che, solo nei miei sogni d’arte,
narrai la bella favola compita.
Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,
sorrido e guardo vivere me stesso.
(I Colloqui - Il giovenile errore, 1911)
L’amico delle crisalidi
Una crisalide svelta e sottile
quasi monile
pende sospesa dalla cimasa
della mia casa.
Salgo talora sull’abbaino
per contemplarla
e guardo e interrogo quell’esserino
che non mi parla:
O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo,
soffri? il tuo cuore sente che attende
l’ora del volo?
Tu ti profili dal tetto antico
sui cieli pallidi…
No, non temere: sono l’amico
delle crisalidi!
No, non temere l’orride stragi
care una volta:
mi dan rimorso gli anni malvagi
della raccolta.
Papili Arginnidi Vanesse Pieridi
Satiri Esperidi:
contemplo triste con la mia musa
la tomba chiusa.
Dormono in pace tutte le morte
sotto il cristallo;
fra tutte domina la sfinge forte
dal teschio giallo.
O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo
soffri? Il tuo cuore sente che attende
l’ora del volo?
Ti riconosco. Profilo aguzzo,
dorso crostaceo
irto, brunito, con qualche spruzzo
madreperlaceo:
sei la crisalide d’una Vanessa:
la Policlora
che vola a Maggio. Maggio s’appressa,
tra poco è l’ora!
Tra poco l’ospite della mia casa
sarà lontana;
penderà vota dalla cimasa
la spoglia vana.
Andrai perfetta dove ti porta
l’alba fiorita;
e sarà come tu fossi morta
per altra vita.
L’ale! Si muoia, per che morendo,
sogno mortale,
s’appaghi alfine questo tremendo
sforzo dell’ale!
L’ale! Sull’ale l’uomo sopito,
sopravvissuto,
attinga i cieli dell’Infinito,
dell’Assoluto…
E tu che canti fisso nel sole,
mio cuore ansante,
e tu non credi quelle parole
che disse Dante?
(Poesie sparse, 1907)
Le golose
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgono le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C’è quella che s’informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L’una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un’altra – il dolce crebbe –
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un’altra, con bell’arte,
sugge la punta estrema:
invano! chè la crema
esce dall’altra parte!
L’una, senza abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema o cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D’Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m’è concesso –
o legge inopportuna! –
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore
baciarvi nel sapore
di crema o cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie
(1907 - Poesie sparse, 1907)
Cocotte
I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto…
II.
«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»
Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d’un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!
«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia Mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co-co-tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
III.
Un giorno – giorni dopo – mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O Piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.
IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni
dopo vent’anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso… Dove sei cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l’ultimo amante disertò l’alcova…
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d’un bacio e d’un confetto,
dopo vent’anni, oggi, ti ritrova
in sogno, e t’ama, in sogno, e dice. T’amo!
Da quel mattino dell’infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t’aspetta, o creatura!
Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state… Vedo la casa, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia…
Vieni! T’accoglierà l’anima sazia.
Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò: rifiorirà, nell’atto,
sulla tua bocca l’ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d’allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.
(I Colloqui - Alle soglie, 1911)
Gozzano