Il denaro e gli oggetti


Le otto composizioni affidate a Il denaro e gli oggetti attraggono subito sia per la coesione propria di ciascuna, sia per la forza dell’orditura che le tiene insieme. Si potrebbe dividere in tre rubriche: nella prima, costituita dal testo di apertura, il soggetto scrivente si pone due domande relative all’impiego delle parole di cui avverte, ovviamente, la responsabilità, pur non potendo esercitare nessuna funzione di controllo né sul piano del loro valore semantico né su quello dello scambio comunicazionale. Il poeta sa che si tratta di parole che “percorrono i dintorni, / i contorni si espandono a grappolo, / a pioggia sottile”, ma nulla può dichiarare della loro urgenza allegorica, se non che si affiancano paratatticamente a “membra”, che si desidererebbero leggere, e che sono affini a “rivoli rossi”: due spie, per altro, non facilmente liquidabili. La terza domanda, rivolta all’interlocutore, e preceduta da una dichiarazione scherzosamente compunta (“io sono qui / che guardo tutto e annoto” la quale, tra l’altro, parrebbe echeggiare il vistosissimo, ancor oggi, “io mi son un che quando amor m’ispira / noto…”), determina un cambiamento che, ignorate le istanze matafisiche dell’inizio, precipita in una presa di coscienza della condizione in cui versa il designato a vestire i panni dell’altro: com’è possibile che lo spettatore della performance possa essere talmente distratto da non accorgersi neppure di “tremare”, di scuotersi “come un cane bagnato”?

C’è dunque, rispetto alle premesse, un divertito accoglimento della legge dell’ingratitudine, ma non c’è nessuna condanna, nessuna voglia di colpevolizzare un soggetto che è anche oggetto delle mire di chi scrive. C’è anzi il suo rovesciamento: il poeta lo ottiene frequentando una sua specialissima cadenza d’inganno: il rammarico si finge suscitato, ma non c’è. Questo procedimento retorico, si deve aggiungere, è un inconfondibile senhal. Riappare, per esempio, nella sesta composizione dove incontriamo “chi apriva il borsellino e sorridendomi diceva / ‘Potrei comprarmi il mondo intero’”.

La seconda rubrica comprende la prossime quattro composizioni. Qui lo stimolo inerente alle domande iniziali si distende in ironia (“Le ossa del pollo o le nostre / si succhiano… / per assorbire la vita, / tutto il sapore che c’è”). È rubrica di allungamento dell’intensità. È anche rubrica che continua ed elabora l’eredità scapigliata degli accostamenti inattesi e, non di rado, stridenti: “vasi che pompano, vasi / che perdono plasma, / anfore, vene e vasi da notte”.

Su questa deriva si innesta la terza rubrica: due componimenti, redatti come vere e proprie narrazioni, accanto al rapporto denaro-oggetto, più un terzo che ha funzionato da commiato. E si passa da impressioni filtrate o, appunto, rimaste a galla nella memoria del poeta (“e a me sembrava osceno, vergognoso / parlare di teoria dei soldi a scuola”) alla storicamente documentabile differenza tra gli oggetti nati per durare e quelli confezionati per essere gettati via. Con questi ultimi si identifica il poeta “nel processo del tempo destinato / a questo oceano sgargiante di rifiuti”.

Ma è una identificazione sospetta: l’oggetto di cui parla ha voglia di esautorarsi, di farsi fuori, di farsi superare. La scrittura con cui ne parla sta agli antipodi di tutto questo perché mette tragicamente in campo una volontà di indugio, un’occasione di ascolto e di ricerca del proprio desiderio, e senza la quale l’umano diverrebbe di difficile se non impossibile definizione.

Su questo impianto interviene William Xerra con otto collage che, appropriandosi dell’istigazione contenuta nei testi, “partono per la tangente”. Assai diversa è la loro tipologia: se nel primo si intravede una figura umana invischiata in colonnine di scrittura a mano (ma per leggere bisognerà disporre l’immagine in posizione orizzontale), nella seconda e nella quarta ci troviamo davanti a una vera e propria geometria delle passioni, a una logica del delirio che è ipso facto delirio della logica. E qui la sintonia con Cucchi è trasparente. Operano all’interno di un godimento che si pone come memoria del durare, ovvero della necessità che dell’uomo umanista permanga prima di tutto ciò che lo costituisce, e che si estrinseca nella capacità di pensare senza obbedire a premesse vincolanti.

C’è anche una sintonia tematica tra il Cucchi di questi testi e lo Xerra di queste tavole: per entrambi il conflitto tra consumo da un lato e volontà aporetica dall’altro disincaglia la conoscenza del giuoco delle conferme. L’occhio che osserva il mondo dal centro di una T-shirt dimezzata (quinta tavola) e la sagoma di una T (settima tavola), che addolcisce uno “scambio” di monete, rinverdiscono la profezia che distoglie l’homo oeconomicus dal suo catastrofico destino.

Luigi Ballerini, 2007.

 

Maurizio Cucchi è nato a Milano, dove vive, nel 1945. Consulente letterario e pubblicista, scrive per le pagine milanesi del “Corriere della sera” e cura una rubrica di poesia su “Specchio della Stampa”. I suoi versi sono compresi in Poesie 1965-2000 (Oscar Mondadori, 2001) e in Per un secondo o un secolo (Mondadori, 2003). Nel 2005 ha pubblicato il romanzo Il male è nelle cose. Ha curato, con Stefano Giovanardi, l’antologia Poeti Italiani del secondo Novecento (Mondadori, 1996 e 2004)