Vagabondaggi e inquadrature: Cartoline illustrate

Illustrazioni.html

questi marginalia

che forse si possono leggere

nel territorio della poesia1


In un appunto pubblicato con altri inediti e rari sul n.18 del “Caffè illustrato”2, Attilio Bertolucci, poeta della visione, suggerisce una della chiavi per avvicinare lo sguardo nitido e partecipe ch’egli pone sul paesaggio, riferendosi al cinema, di cui fu grande cultore sin dall’adolescenza.

Il nostro occhio di continuo inquadra: sia che guardi un paesaggio o, che fa lo stesso, una strada di grande città, o una stanza deserta. Alle luci, cui in un film sapientemente pensa mettiamo uno Storaro, nella nostra giornata è il giro del sole, il primo addensarsi delle ombre che ci “pensa”.


Per questo ci appare perfetto, accanto alla scelta d’autore del titolo, il frammento poetico che apre la raccolta. Comunicando il ricordo della campagna lontana e cara, del suono e del colore di cielo, cui pensare in un giorno d’inverno, segnala il respiro della luce, mentale e reale, che “inquadra” il paesaggio. È la stessa luce che intesse e “inquadra” le Cartoline illustrate.

Ma la cartolina, che ci porta immagini lontane, non è forse un’inquadratura? Inquadrature dunque anche le prose del “Viaggio a”, costruite con sapiente messa a fuoco di particolari, avvicinati o distanziati sia con restringimenti sia con allargamenti di campo e con un apparente dérèglement compositivo, che è invece un “ordine calibrato con mirabile misura”. Per questa via si giunge alla campitura sul monumento, esterno o interno che sia, descritto da Bertolucci con la somma virtù della leggerezza e della rappresentazione precisa ed esatta, di raro equilibrio tra qualità d’arte, verità storica e gusto dell’aneddoto. Raffinato essayist, il poeta sa, con Virginia Woolf, ma anche con il nostro Emilio Cecchi, che trasparenza e naturalezza, armonia e variazione, innesti di ricordi privati e “divagazioni”, creano un tessuto fermo e insieme piacevolmente mobile3. E sa anche coniugare questi pregi con un’attenzione costante, e mai pedante, al rapporto tra passato e presente, tra tradizione, spesso altissima, e passaggio del tempo e delle generazioni, che trasformano, innovano, fino a minacciare e a deturpare il bello della natura e dell’arte.


“Questi nostri viaggi sono caratterizzati dalla ricerca dell’inusuale, dello sconosciuto”, scriveva Sabatino Moscati, introducendo il suo “Viaggio a Cassino” e pensando certamente all’ignaro visitatore da coinvolgere4. Eppure il “viaggio” con Attilio Bertolucci sembra condurci verso luoghi di un’Italia minore, ma quanto mai nobile, conosciuta profondamente e intima mente; luoghi che appartengono a realtà d’anima e di memoria, proustianamente intesa; luoghi che scaturiscono dall’ “invenzione dal vero” che li trasforma e li inserisce nella durata e nel tempo della parola e della visione. Non a caso, vedremo, saremo spesso trasferiti come su una scena; d’ispirazione verdiana, naturalmente, se Verdi è quel grande creatore di una “verità più vera del vero” cui ha sempre guardato Bertolucci.

Di più, gli incontri d’arte, ai quali siamo guidati dal poeta, conservano e trasmettono l’esperienza grande e varia, frutto di studi e di passione, del giovane che era stato nutrito, nella “piccola capitale” di Parma, dalle opere del Correggio5 e del Parmigianino; era stato amico di Francesco Arcangeli6; aveva apprezzato nell’Università bolognese le lezioni di Roberto Longhi, facendosi buon connaisseur7, docente nei licei8 e critico d’arte sulle pagine di quotidiani e periodici9, e innervando la sua poesia di immagini e suggestioni tratte dalle diverse arti.

La scelta dei luoghi inoltre, segue le tappe dell’esistenza del poeta: il territorio parmense e le terre bagnate dal Po su su fino a Cremona e a Mantova; Salsomaggiore, dove si recò bambino, negli anni venti, in compagnia del nonno Giovanni Rossetti e dove tornò adulto10; la Lunigiana, tappa nei trasferimenti verso la Versilia, terra di vacanze estive; il Lazio, che lo ospitò, a Roma, a partire dal 1951.

Non ci sorprendono le mete, anzi avvalorano ciò che prima abbiamo affermato: quando, negli anni ottanta, il poeta stende i suoi “Viaggio a”, quasi naturalmente torna ai luoghi che ritrova nella memoria. Torna a evocarli, ora nella nebbia che li ovatta (Fontanellato) ora sotto la luce di una notte di luna (Busseto), ora procedendo con Fabrizio del Dongo e Sthendal (Colorno), ora sull’aria dei ventilati versi di Dante e di Ceccardo (Filetto), nella “fata morgana” infine, di montagne “viste e amate come insostituibili” (Le Apuane) o nella “dolcezza dell’aria e del ritmo, del passo di vita” della ville d’eau dal “meraviglioso” liberty (Inno al liberty)11. Ed è il tempo della memoria, che intrecciandosi con l’esistenza, rende le parole di Bertolucci epifaniche e poetiche, senza perdere la verità, la pertinenza critica e la concretezza del reale.

Lo sguardo del poeta è lo stesso sguardo che rivela e ferma la bellezza che la natura, la mano dell’artista e il corso degli anni hanno impresso. È lo stesso sguardo che conosce la precarietà e la caducità, ma anche il valore durevole dei frutti dell’uomo; conosce la fragilità fisica delle opere d’arte e la necessità, con l’insegnamento di Longhi12, di non disperderle
, di rinnovarle, come fu per Ninfa, dopo un lungo oblio13. Ed è lo sguardo che posandosi sulla pianura lavorata, sulla Badia gotica, ancora profumata di fieno, sulle architetture del Palazzo Ducale (Colorno), sui colli di vigne e di pini (Grottaferrata), sul pineto dell’Alcyone versiliano, trasferisce al lettore il lungo respiro temporale, il ritmo sempre nuovo e diverso della vita.


Attilio Bertolucci nei suoi primi interventi sull’arte (e pensiamo in particolare ai memorabili articoli sulle biennali veneziane del 1948 e 1950, ora raccolti in Ho rubato due versi a Baudelaire)14, si era proposto come “disinteressato turista in crociera di navegar pitoresco”, scegliendo la forma della “passeggiata” come la più appropriata per un’avventura dell’occhio e della mente. La stessa forma fu poi usata nelle cronache degli anni 1956-1957, quando si fece critico d’arte contemporanea sulla “Fiera Letteraria”, firmando la rubrica “Mostre romane” e scrivendo altri pezzi sulla “Illustrazione Italiana”15.

Fu tuttavia vero e mirabile scrittore di viaggio nella serie di articoli Gli antiquari, pubblicata su “Il Giorno”, cui collaborò dal 1963 al 1976, articoli cari al poeta, che, ormai alla fine della sua vita, ne rivendicava l’originalità e che ora si leggono nell’ultima parte di Ho rubato due versi a Baudelaire sotto il titolo Viaggio fra gli antiquari.

In quelle pagine assai eleganti, dove si intrecciano “bellezza e verità”, possiamo seguire il cammino, il “vagabondaggio”, lo diremmo con Cecchi16, per la libertà di spostamenti e di soste, di curiosità e di scoperte, del viaggiatore Bertolucci, l’artista che andava scrivendo il quotidiano e il feriale: gli incontri, le conversazioni in negozi mal riscaldati con raccoglitori “ascetici” e aristocratici, innamorati dell’antico, carezzevoli nel gesto con cui togliere la polvere da un oggetto.

Sono pagine che ci introducono a città, che, a partire da Piacenza e Parma, egli visita con competenza di maestro e con la naturalezza di chi si lascia andare al ritmo fluente di una pacata giornata, raccontando tesori d’arte, ora racchiusi in un castello o in un’importante galleria come la Galleria Ricci-Oddi, più spesso scoperti in quelli ch’egli chiama gli “empori delle meraviglie”: botteghe di rigattieri, ricolme dei più disparati oggetti, e botteghe antiquarie, dove ammirare porcellane, quadri, disegni d’artisti importanti come il Beccafumi, accanto a mobili d’epoca dai legni e dagli intarsi preziosi, di grande sapienza artigianale.

Di più, in alcuni passi, ecco le considerazioni sulla contemporaneità, che ha reso più agevole la vita moderna, ma ha turbato l’armonia tra paesaggio e opera dell’uomo: l’autostrada “utilissima”, ma che non giova a chi vada alla ricerca di “controveleni e antidoti quali possono essere una ribaltina Luigi quindici o un letto di ferro liberty”; il posteggio di Piazza del Duomo di Parma che la defrauda del suo “spazio aperto, luogo d’incontro di opposti venti, di rondini plananti, di bambini in corsa da Salimbe
ne, vedi la Cronica, a ieri”; le speculazioni edilizie, che “ignobilmente” distruggono le architetture neoclassiche; il traffico automobilistico che minaccia il Casino Petitot, finalmente restaurato; la campagna abbandonata e non più viva di case e di gente. Ma accanto, indicazioni garbate sulle vie libere, sulle piazze dal “quieto brusio”, sul paesaggio di cascine e vecchie ville e terreni ben coltivati e ordinati, sulle acque e sulle rive dei fiumi, su osterie o trattorie infine, dove fermarsi per assaporare il “bianco buono come il «blanc de blancs»“ o “il pane altissimo, soffice, e il pesce di fiume, fritto”.


Non diverse la struttura e la voce delle Cartoline illustrate, una voce cordiale e comunicativa, dai toni smorzati, con qualche punta arguta o dissonanza. Qui le città si allontanano sullo sfondo, richiamate da un riferimento chilometrico o stradale o da un accenno lieve. Al contrario, si affacciano in primo piano un borgo o una cittadina o una zona aperta, che ospitano un’opera architettonica di pregio su cui il narratore, che già l’aveva talvolta incontrata nel Viaggio fra gli antiquari, si sofferma particolarmente.

Obbligato a restringere il suo “Viaggio a” in uno spazio definito – ma al poeta, uno degli scrittori più liberi mai conosciuti, non dispiaceva sentirsi “obbligato”! – Bertolucci costruisce questi pezzi puntando proprio sull’idea della “cartolina”, limitando a pochi tratti e senza troppi indugi descrittivi l’itinerario. Eppure quanta sapienza nel montaggio, quanta consistenza e ricchezza nel trasporre le immagini architettoniche e figurative in immagini letterarie; quale aria e colore di ore nei suoi schizzi di paesaggio! Il pur rapido cammino si ricolma di tempo meteorologico e di vita, di quella vita che le opere sanno conservare: tra le strade del borgo o all’interno dei cortili e delle mura affrescate; in sale preziosamente ornate; in boudoirs dove nobili fanciulle andate spose si agghindavano o venivano effigiate per l’eternità nella loro grazia e bellezza. Su tutto le risonanze di una musica “infinitamente umana”, alla cui eco aveva percorso le vie o sostato nell’incanto della contemplazione in una “notte placida” (Montechiarugolo), nelle pause di una colazione all’ombra di una pergola o di mura accoglienti.

È chiaro
tuttavia che le Cartoline illustrate portano soprattutto il segno dell’arte. Si aprono, e non a caso, con Fontanellato17, dove ammirare la “stufetta” del Parmigianino, al quale, con il Correggio, di cui si ricorda la Camera di San Paolo, unitamente alla Camera degli Sposi del Mantegna, Bertolucci
aveva ricondotto la “grazia” della sua poesia: “Noi dal Parmigianino in giù respiriamo nell’aria dei nostri borghi: e ne restiamo impregnati per sempre”18.
Sì, anche l’ “aria” del borgo andava dunque rivissuta ed ecco il “bell’arco”
che conduce al “colore caldo dei muri di cotto” della Rocca Sanvitale, il ponte “gittato su di una fossa di acqua verdastra”, il cortile “un po’ restaurato”, per giungere, attraverso la stanza delle “Donne acrobate”, alla meraviglia della “stufetta”, indicata nel suo significato pratico di stanza da bagno per Paola Gonzaga Sanvitale e
ricreata nelle componenti pittoriche e iconologiche, con sicuro giudizio critico: pochi elementi ma sufficienti per far conoscere la giovinezza dell’autore ispirata dal Correggio; la sua “fiammante maniera” nel trattare il mito di Diana e Atteone, narrato da Ovidio; la sua originale visione, che, privilegiando dolcezza e bellezza, attenua ogni
asprezza; l’eredità infine, che Francesco Primaticcio, detto il Bologna, raccolse per le decorazioni del Castello di Fontainebleau.


La traduzione verbale del fatto figurativo si coniuga sempre con la ricreazione del mondo reale, pur per scorci, che, come già in Longhi19, rivelano interesse per il vissuto, mentre lettura e interpretazione dell’autore sono, contemporaneamente, informative e comunicative20. Soprattutto quando Bertolucci ci introduce alla sintassi architettonica, oltre alle funzioni dell’edificio e all’ambientazione paesaggistica, acquistano rilievo i valori formali, utilizzando lo scrittore linguaggio e riferimenti letterari, che conducono all’interno del suo universo culturale e
poetico. Così avviene per Forte della Rocchetta: la mole ormai in disuso entra nell’ambito del pittoresco, perse le finalità per cui era stata costruita secondo moduli illustri; apre alla vista di spazi cari, perché legati alla bellezza e alla poesia; profuma di erbe domestiche, le preferite dal poeta per il suo erbario.

Allo stesso modo si procede nelle altre Cartoline dove si presentano rocche, castelli o santuari:

in Colorno, esemplare per l’uso della variazione e del movimento temporale e spaziale, che anima le architetture murarie e arboree; dà sostanza alle trasformazioni armoniche operate dai Borbone, da Maria Luigia, ancora dai Borbone e alle spoliazioni dei Savoia; si chiude infine sull’Arancera, sul “gioco di archi in controspinta aperti in tondi” del primo piano ideato da Ferdinando Bibiena;

in Montechiarugolo, dall’alta loggia aerea, affacciata
sul fiume Enza, ritmata da colonne “snelle come tronchi di piante giovani”, sfiorata dall’aria della valle;
nel borgo di Filetto, la cui urbanistica è un vero capolavoro di geometria,
di armonia di proporzioni e di materiali, di civiltà;

nel Santuario delle Grazie (Mantova), il cui puro gotico mette in scena i Guerrieri Straccioni di Frate Francesco d’Acquanegra, anticipatore naïf di Goya;

nell’Abbazia di Grottaferrata,
“prospettiva di archi aperti sulla pianura in cui Roma sfuma luminosa come in un Turner”;
in Sabbioneta, divenuta, da modesto villaggio medioevale, città ideale del
sogno rinascimentale di Vespasiano Gonzaga, la cui Galleria d’arte, “svuotata è anche più suggestiva, nella sua inutilità e ancor più che sogno, incubo surreale”;
nel liberty infine di Salsomaggiore e di Inno al liberty, che nei suoi “meravigliosi” monumenti, le Terme Berzieri e
l’Hôtel des Termes, costruito da Charles Ritz, frequentato da Edith Wharton (la scrittrice statunitense, “storica” della società americana d’inizio ‘900)
e dalla bellissima Donna Franca Florio, mostra la sensualità coloristica di Galileo Chini, allievo di Klimt e di Fattori:

Ma il soffitto della sala dove pranzavano gentildonne e gentiluomini sul morire ritardato della “belle époque” è una pura meraviglia di nuvole, azzurri, ghirlande di rondini in volo, e proprio quelle gentildonne, in abiti che cominciano ad allentarsi e accorciarsi, e loro partners in frack, le une e gli altri per niente stupiti di ritrovarsi in cielo.


In queste Cartoline e nella altre, cui accenneremo, è l’esercizio della “divagazione” proprio di Bertolucci (e di Proust, naturalmente) a creare il ritmo ondulante del racconto. Talvolta è appena un nome o un verso21 e un accenno22; talaltra è una breve vicenda narrata con garbo e riferita a se stesso23, più spesso è un piccolo percorso all’interno di libri o luoghi, che più ha amato.

Uno di questi itinerari, quello forse che più risuona di poesia, ci conduce a Marina di Pietrasanta sulla scia di D’Annunzio e del suo “stupendo diario di un’estate marina che è l’Alcyone”. Ma le spiagge “stregate” e la “giornata che libeccio, risalendo la costa, renda impossibili gli arenili” appartengono anche al Bertolucci delle lunghe vacanze estive negli stessi luoghi. Si ascolti l’incipit della V sequenza del capitolo XXX, Il capanno della Camera: “Il libeccio tortura l’arenile disertato da tutti / non da N. e da A.” e si senta l’eco poetica di quel vento violento che si fece complice dell’amore. Nella prosa, là dove risuona la musica dei versi della La pioggia nel pineto (“[…] Ermione, cervi e centauri, immaginari si capisce, gocce di pioggia magari reali, ma così deliziose nella lirica più nota del libro, non indegna delle liquide melodie di Debussy […]”) e si accende la fantasia degli amanti nudi sulla spiaggia
“schiarita dal plenilunio” si raggiunge un intenso climax ascendente, giustamente frenato dal racconto dell’esorcismo voluto dalla contessa proprietaria della villa “La Versiliana”, che aveva ospitato gli amanti. Alla stessa regione si riferisce il pezzo Le Apuane, che appartiene alla pittura di cielo e di stagioni, nell’aprirsi di visioni, nei passaggi di spazio e di tempo al Bertolucci, lettore di Wordsworth e dei lirici inglesi; appartiene al poeta della Capanna indiana, e al paesaggista del I libro della Camera da letto. “Sogno a occhi aperti”, egli diceva la sua poesia; e qui: “è possibile visitare da svegli un sogno?”. Ma tutto, la maestosità, la “terribilità” delle “solitudini bianche e ventose del ventre durissimo”, che tentò Michelangelo e, nel ‘900, Henry Moore, parla di quell’esperienza di natura che fu dei romantici e che porta,
“in sfida alla morte” il segno dell’arte. In chiave pittoresca – le rovine, gli acquitrini, i muri sconnessi e ricoperti di rampicanti, l’abbandono dopo le lotte di famiglia – è letto dallo scrittore anche il giardino di Ninfa, pur ingentilito dalla rappresentazione “d’acque scorrenti, preziose per le piante, i muschi, i praticelli, i roseti che coprono e scoprono, mai soffocano, la pietra e il mattone”.
Bertolucci non dimentica mai le proprie radici di Virgilio padano24, di proprietario agrario, cresciuto in campagna ricca d’acque, “abbracciata da mais, erba, piante da frutto” (Sabbioneta), profumate di fieno, di verdure “geometrico more seminate” (Grottaferrata), di campi generosi e fertili curati con intelligenza; e pur dipingendo, al modo
degli amati impressionisti, i loti rossi, rosa e bianchi, tra le foglie verdi, che una naturalista gentile fece fiorire sul Lago Superiore, ne riconosce l’utilità pratica (Mantova).
Ora, su questa linea, che potremmo dire domestica, come domestica è stata la sua poesia sin dagli esordi, si collocano Castelvecchio e Busseto, che ci parlano di due “grandi”: Pascoli e Verdi. Nel primo scritto è la casa di Pascoli, “casa” si badi, “non villa né casale”, ma dimora conveniente al medio borghese agrario che Pascoli aveva scelto di rimanere contro il destino” a rivelarsi, con Bertolucci, dimora dall’ambiguità nascosta, dal sottile estetismo, dal sentore di intimo segreto. Nel secondo è il capoluogo del “paese del melodramma”, a fissarsi come scena di teatro. Era stata di Bruno Barilli la definizione; di Barilli,
che sentì più di ogni altro nel respiro dell’opera verdiana “l’aria carica e violenta di questa pianura lavorata a fondo”. Me è di Bertolucci lo sguardo intenerito sulla povera casa delle origini e il far notare, al visitatore della dimora altoborghese di Sant'Agata, il colore “stregante”
degli arredi e del giardino, dove si realizzò l’arte verdiana, e le “biolche” dei poderi che il Maestro via via acquistava con oculatezza. Nel considerare i legami che ebbero con la propria terra sia il Pascoli, che mai volle allontanarsi dal luogo dove soltanto si poteva trovare “poeta in armonia, anche se minacciata e straziata, col mondo”, sia Verdi, che mai volle “sradicarsi del tutto” e perdere “sostanza e linfa” (Capriccio verdiano)25, su questi legami profondi batte il cuore di Bertolucci. E non a caso il suo cuore batte con Verdi, perché in lui e nella sua musica il poeta di Parma riconosceva la radice della sua “invenzione dal vero”, della sua poetica della “rappresentazione”, della teatralità visionaria della sua arte.


Gabriella Palli Baroni, 2006


(1) Da una dedica di Attilio Bertolucci ad Aritmie

(2) Datato 1992, si legge nel Dossier Bertolucci, a cura della scrivente, in “Il caffè illustrato”, n. 18, maggio-giugno 2004 p. 45.

(3) Sulla “divagazione” e su queste caratteristiche della prosa di Bertolucci essayist si rimanda alla nostra più ampia trattazione Le ali della prosa in Attilio Bertolucci, Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose divagazioni, Mondadori, Milano 2000, p. 431-449.

(4) Per Moscati e altre firme su “L’Espresso” si veda la Nota al testo (p.12)

(5) Memorabile il ricordo di una visita di Bertolucci e Ungaretti alla Camera di San Paolo, fonte di ispirazione per il grande vecchio poeta, come la scrivente racconta in “Rivelazione” del Correggio. Da una lettera di Giuseppe Ungaretti ad Attilio Bertolucci, in “Antologia Vieusseux” a. X n. 29, maggio-agosto 2004 p.61-69.

(6) Ricordiamo l’affettuoso Il romanzo di Francesco Arcangeli, in Aritmie, Garzanti, Milano 1991, p.123-125; ora in Opere, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1997, p.1089-1092. Arcangeli successe a Longhi sulla cattedra della Studio bolognese.

(7) Longhi, per Contini, che firmò la Prefazione al “Meridiano” Da Cimabue a Morandi (Mondadori, Milano 1973), fu “un grande critico d’arte figurativa, a sua volta fondato su un conoscitore eccezionale, cioè su un reticolato di memoria senza pari”. Ma si veda per questo, in Aritmie, cit. p. 162-167 e ora in Opere cit., p. 1137-1143, Non intervista a Roberto Longhi.

(8) Bertolucci insegnò Storia dell’arte nel Convitto Maria Luigia di Parma e, dopo il trasferimento a Roma nel 1951, nel Liceo classico Virgilio in questa città.

(9) Rimandiamo agli scritti d’arte di Bertolucci in Aritmie e in Ho rubato due versi a Baudelaire, e ai saggi della scrivente Le ali della prosa, postfazione al volume testè citato, e Attilio Bertolucci critico d’arte della “Fiera Letteraria”, in I sentieri incrociati, a cura di Marcello Ciccuto, Baroni Editore, Viareggio 2002, p. 193-212. Segnaliamo infine la tesi di Laurea Magistrale di Silvia Trasi (Università degli Studi di Milano. Facoltà di Lettere e Filosofia) dal titolo Ricordi figurativi di Attilio Bertolucci.

(10) Salsomaggiore è il tema ricorrente nell’opera di Bertolucci. Ricordiamo in particolare Edith Wharton a Salsomaggiore (Aritmie, in Opere, p. 1002-1006), Burattini e marionette (ivi, p. 1193-1195) e il bellissimo capitolo XV Nonno e nipote de La camera da letto (Opere, cit. p. 571-578).

(11) È vero che Bertolucci continuò a trascorrere le vacanze estive a Tellaro almeno fino agli anni novanta, ma anche nei pezzi che raccontano questi luoghi, come Le Apuane datato 21 novembre 1982, la prospettiva temporale è evocativa, nel passaggio tra il tempo della composizione, l’inverno, e il tempo estivo della vita reale.

(12) Si legge nel ritratto Non intervista a Roberto Longhi: “Come diventa loquace Longhi se deve parlare di intonaco, mattoni, infiltrazioni d’acqua eccetera. La fragile natura fisica di quelle cose sublimemente spirituali che sono le opere d’arte, la loro caducità lo commuovono profondamente, e allora per allontanare la cosa orribile che potrebbe essere la loro fine, egli aguzza tutto il suo ingegno nella direzione della carpenteria e della muraria, della piccola chimica dei colori e delle vernici”.

(13) A Ninfa Bertolucci fu invitato da Marguerite Caetani, che diresse “Botteghe oscure”, la rivista su cui Bertolucci pubblicò poesie nel 1948 e nel 1950.

(14) Si veda la sezione di Ho rubato due versi a Baudelaire intitolata Mattini a Venezia e altrove.

(15) Gli articoli apparsi su “L’illustrazione Italiana”, cui Bertolucci collaborò dal 1955 al 1962, sono ancora da esplorare, a parte i pochi ristampi in Aritmie, cit.; poi, in Opere, cit. Per gli scritti in prosa si rimanda alla Bibliografia che accompagna Ho rubato due versi a Baudelaire.

(16) Bertolucci ricordava la “trattazione umana e intera” dei Vagabondaggi di Emilio Cecchi

(17) Fontanellato era già stato descritto da Bertolucci: in Castelli di Parma (“L’illustrazione Italiana”, a. LXXXIV, n. 5, maggio 1957, p. 32-40), in Luigi sedici sotto chiave nella zanzariera (in Ho rubato due versi a Baudelaire, cit. p. 359-360).

(18) Cfr. Antero Piletti, Corrado Cagli, Giulio Turcato, Renzo Grazzini, in “La Fiera Letteraria” a, XII, n. 18, 5 maggio 1957.

(19) Si rimanda a quanto scrive Cesare Garboli in Longhi lettore, in AA.VV., L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo, a cura di G. Previtali, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 114.

(20) Si veda su questi aspetti del linguaggio visivo e verbale, nella collana della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma: Cesare Segre, Pittura, linguaggio e tempo. Università degli Studi di Parma, Mup Editore, Parma 2006.

(21) Splendido l’incipt di Filetto sui passi “ventilati” dei versi del canto VII, vv. 115-116 del Purgatorio di Dante, che soggiornò in Lunigiana, e sul bel verso di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, poeta assai caro a Montale e a Bertolucci che volle inserirlo nell’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (a cura di Gabriella Palli Baroni, Cento Libri per Mille Anni, Poligrafico dello Stato, 2000). Il verso, che suona “quando il melo si fa magro d’argenti”, porta una variante “il fiume”, invece di “il melo”. Evidentemente Bertolucci qui cita a memoria.

(22) Si apprezzi l’ironico accostamento ch’egli in Montechiarugolo fa tra lo zelo letterario di Petrarca, “Quasi sempre assente e del tutto inutile” nei suoi doveri di canonico del Duomo di Parma, e il proprio: “Era un po’ come lavorare in Rai e starsene a scrivere poesie a Villa Sciarra”.

(23) Si veda l’explicit di Marina di Pietrasanta, che riferisce un divertente aneddoto di Carlo Emilio Gadda.

(24) Così Elsa Morante, nel ricordo Elsa in Aritmie, cit. p. 149-150 (ora in Opere, p. 1120-1122)

(25) Si legge in Aritmie, p. 16-31 e in Opere, p. 959-978.

 

Le illustrazioni di Xerra